Pëtr Alekseevič Kropotkin nasce a Mosca il 9 dicembre 1842. Per ricordare il suo 180° anniversario, abbiamo deciso di ripubblicare questo suo scritto, tratto da “Parole di un ribelle”, traduzione italiana dell’edizione della Casa editrice sociale, Milano 1921, riveduta e corretta dalle Edizioni Anarchismo.
Anarchia e ordine
Sovente ci si rimprovera di aver accettata per divisa la parola anarchia, che fa così paura a tanti spiriti. “Le vostre idee sono eccellenti” – ci si dice – “ma confessate che il nome del vostro partito è scelto male. Anarchia, nel linguaggio corrente, è sinonimo di disordine, di caos; questa parola sveglia nell’anima l’idea di interessi cozzanti fra loro, di individui che si fanno la guerra, e non possono riuscire a stabilire l’armonia”.
Cominciamo, anzitutto, dall’osservare che un partito d’azione, un partito che rappresenta una tendenza nuova, ha raramente la possibilità di scegliere egli stesso il suo nome. Non sono gli gueux (pezzenti) del Brabante gli inventori di questo nome, divenuto più tardi così popolare. Nomignolo dapprima – e nomignolo ben trovato – fu rilevato dal partito, generalmente accettato e ben presto divenne il suo appellativo glorioso. Si converrà, a ogni modo, che questa parola racchiudeva tutta una idea.
E i sanculotti del 1793? – Sono i nemici della rivoluzione popolare che hanno lanciato questo nome, ma non racchiudeva anch’esso tutta una idea, quella della rivolta del popolo cencioso, stanco di miseria, contro tutti quei realisti, sedicenti patrioti e giacobini, ben messi, ben azzimati, che malgrado i loro discorsi pomposi e l’incenso bruciato davanti alle loro statue dagli storici borghesi, erano i veri nemici del popolo, poiché lo disprezzavano profondamente per la sua miseria, per il suo spirito libertario e di uguaglianza, per la sua foga rivoluzionaria?
Lo stesso dicasi per il nome di nichilisti, che ha tanto preoccupato i giornalisti e ha dato luogo a tanti giochi di parole, buoni e cattivi, fino a quando non si è compreso che non si trattava d’una setta barocca, quasi religiosa, ma d’una vera forza rivoluzionaria. Lanciato da [Ivan] Turgenev nel suo romanzo Padri e figli, fu rilevato dai padri che si vendicavano con questo soprannome della disobbedienza dei figli. Questi ultimi l’accettarono, ma quando, più tardi, si accorsero che si prestava a malintesi e vollero liberarsene, era impossibile. La stampa e il pubblico non volevano indicare altrimenti i rivoluzionari russi. D’altra parte, il nome non è affatto mal scelto, poiché racchiude un’idea: esso esprime la negazione di tutto l’insieme dei fatti dell’attuale civiltà, basata sopra l’oppressione di una classe sull’altra; la negazione dell’attuale regime economico, la negazione del governo e del potere, della politica borghese, della scienza ufficiale, della moralità borghese, dell’arte posta al servizio degli sfruttatori, dei costumi grotteschi o detestabili di ipocrisia, di cui i secoli passati hanno dotato la società presente – in una parola, la negazione di tutto quanto la civiltà borghese oggi circonda di venerazione.
Lo stesso per gli anarchici. Quando nel seno dell’Internazionale, sorse un partito che negava l’autorità nell’associazione e si ribellava contro l’autorità sotto qualunque forma, questo partito si chiamò dapprima principio federalista, poi antistatista o antiautoritario. A questa epoca evitò pure di darsi il nome di anarchico. La parola an-archia (così la si scriveva allora) sembrava riattaccarsi troppo al partito dei proudhoniani, di cui l’Internazionale combatteva in quel momento le idee di riforma economica. Ma è precisamente per questo, per gettare della confusione, che gli avversari si compiacquero di usare quel nome; inoltre, esso permetteva di dire che il nome medesimo di anarchici prova che il loro unico intento è di creare il disordine e il caos, senza pensare al risultato.
Il partito anarchico si affrettò ad accettare il nome che gli si dava. Insistette dapprima sul piccolo tratto di unione fra “an” e “archia”, spiegando che sotto questa forma, la parola “an-archia”, d’origine greca, significava assenza di potere e non disordine; ma poi, ben presto, l’accettò tale e quale, senza dare una fatica inutile ai correttori di bozze, né lezioni di greco ai suoi lettori.
La parola è dunque ritornata al suo significato primitivo, comune, espresso in questi termini, nel 1816, da un filosofo inglese, [Jeremy] Bentham: “Il filosofo, che desidera riformare una cattiva legge – diceva egli – non predica contro di essa l’insurrezione… Il carattere dell’anarchico è tutto diverso. Egli nega l’esistenza della legge, ne rifiuta la validità, eccita gli uomini a misconoscerla come legge e a sollevarsi contro la sua esecuzione”. Il senso della parola è divenuto oggi più largo: l’anarchico nega non solo le leggi esistenti, ma qualunque potere costituito, qualunque autorità; tuttavia l’essenza è restata la medesima: l’anarchico si ribella – e comincia da ciò – contro il potere, l’autorità sotto tutte le forme.
Ma, questa parola, ci dicono, sveglia nello spirito la negazione dell’ordine, portando l’idea di disordine, di caos.
Cerchiamo, tuttavia, di intenderci. Di quale ordine si tratta? È dell’armonia che sogniamo noi anarchici? dell’armonia che si stabilirà liberamente nelle relazioni umane, quando l’umanità cesserà di essere divisa in due classi, di cui l’una sacrificata a profitto dell’altra? dell’armonia che sorgerà spontaneamente dalla solidarietà degli interessi, quando tutti gli uomini formeranno una sola famiglia, quando ciascuno lavorerà per il benessere di tutti e tutti per il benessere di ciascuno? Evidentemente no. Coloro che rimproverano all’anarchia d’essere la negazione dell’ordine non parlano di questa armonia dell’avvenire; essi parlano dell’ordine come lo si concepisce nella nostra attuale società. Vediamo dunque che cosa è quest’ordine che l’anarchia vuole distruggere.
L’ordine, ciò che essi intendono per ordine, è per i nove decimi dell’umanità l’obbligo di lavorare per procurare il lusso, le gioie, la soddisfazione delle passioni più esecrabili a un pugno di fannulloni.
L’ordine è, per questi nove decimi, la privazione di tutto quanto è condizione necessaria d’una vita igienica e di uno sviluppo razionale delle attività mentali. Ridurre i nove decimi dell’umanità allo stato di bestie da soma, viventi giorno per giorno, senza osare mai di pensare alle gioie procurate all’uomo dallo studio delle scienze, dalla creazione artistica – ecco l’ordine!
L’ordine è la miseria, la fame divenuta lo stato normale della società. È il contadino irlandese morente di fame; è il contadino di un terzo della Russia morente di difterite, di tifo, di fame in seguito alla carestia, in mezzo ai mucchi di grano che si spediscono all’estero. È il popolo d’Italia ridotto ad abbandonare le sue lussureggianti campagne per girare attraverso l’Europa in cerca del traforo di una galleria qualunque, dove rischierà di farsi schiacciare dopo essere riuscito a vivere qualche mese in più. È la terra tolta al contadino per l’allevamento del bestiame che servirà a nutrire i ricchi; è la terra lasciata incolta piuttosto di restituirla a colui che altro non domanda se non di coltivarla.
L’ordine è la donna che si vende per nutrire i suoi figli; è il fanciullo ridotto a starsene chiuso in una fabbrica o a morire d’inedia; è l’operaio ridotto allo stato di macchina. È il fantasma dell’operaio insorto sulle soglie dei ricchi; è il fantasma del popolo insorto alle porte dei governanti.
L’ordine è un’infima minoranza elevata agli scanni governativi, che si impone con ciò alla maggioranza e alleva i suoi fanciulli per occupare più tardi le stesse funzioni, onde mantenere i medesimi privilegi con la camorra, la corruzione, la forza, il massacro.
L’ordine è la guerra continua fra uomo e uomo, fra mestiere e mestiere, fra classe e classe, fra nazione e nazione. È il cannone che non cessa di tuonare in Europa, è la devastazione delle campagne, il sacrificio di intere generazioni sui campi di battaglia, la distruzione in un anno delle ricchezze accumulate durante secoli di rude lavoro.
L’ordine è la servitù, l’incatenamento del pensiero, l’avvilimento della razza umana, mantenuto con il ferro e la frusta. È la morte improvvisa per il grisou, la morte lenta per avvelenamento di centinaia di minatori lacerati e sepolti ogni anno dalla cupidigia dei padroni, e mitragliati, inseguiti con le baionette non appena osano lamentarsi.
L’ordine, infine, è l’annegamento nel sangue della Comune di Parigi. È la morte di trentamila uomini, donne e fanciulli, squarciati dagli obici, mitragliati, sepolti nella calce viva sotto i selciati di Parigi. È il destino della gioventù russa, murata nelle prigioni, sepolta fra le nevi della Siberia, e della quale i migliori, i più puri, i più devoti rappresentanti muoiono sul capestro del boia.
Ecco l’ordine!
E il disordine – quello che essi chiamano disordine? È la sollevazione del popolo contro questo ordine ignobile, per spezzare le sue catene, distruggere ostacoli e marciare verso un avvenire migliore. È ciò che l’umanità ha di più glorioso nella sua storia.
È la rivolta del pensiero alla vigilia delle rivoluzioni; è il rovesciamento delle ipotesi sanzionate dall’immobilità dei secoli precedenti; è l’esplosione di tutto un fiotto di idee nuove, di invenzioni audaci; è la soluzione dei problemi della scienza.
Il disordine è l’abolizione della schiavitù antica, l’insurrezione dei comuni, l’abolizione del servaggio feudale, i tentativi d’abolizione del servaggio economico.
Il disordine è l’insorgere dei contadini contro i preti e i signori, bruciando i castelli per fare posto alle capanne, sbucando dalle tane per balzare al sole. È la Francia che abolisce la monarchia e assesta un colpo mortale al servaggio in tutta l’Europa occidentale.
Il disordine è il 1848 che fa tremare i re e proclama il diritto al lavoro. È il popolo di Parigi che combatte per una idea nuova e che pur soccombendo sotto i massacri lascia all’umanità l’idea della Comune libera, le spiana il cammino verso la rivoluzione di cui sentiamo l’avvicinarsi e il cui nome sarà Rivoluzione Sociale.
Il disordine – quello che essi chiamano disordine – sono le epoche durante le quali intere generazioni sopportarono una lotta continua e si immolarono per preparare all’umanità un’esistenza migliore liberandola dalla servitù del passato. Sono le epoche durante le quali il genio popolare si sviluppa liberamente e fa in pochi anni passi giganteschi, senza i quali l’uomo sarebbe rimasto allo stato di schiavo antico, di essere strisciante, avvilito nella miseria.
Il disordine è lo sbocciare delle più belle passioni e delle più grandi affezioni, è l’epopea dell’amore supremo dell’umanità!
La parola anarchia, che implica la negazione dell’ordine, invoca il ricordo dei momenti più belli della vita dei popoli, non si addice se non a un partito che marcia alla conquista di un avvenire migliore.
Pëtr Alekseevič Kropotkin